CASACALENDA. Il vernacolo molisano non è stato fortunato all’interno della tradizione dialettale d’Italia. Perciò occorre riconoscere quanto abbiano contribuito al primato della lingua napoletana l’acuta sensibilità di Salvatore Di Giacomo, i guizzi di Eduardo Scarpetta, i lazzi di Eduardo De Filippo. Questi ultimi furono sicuramente facilitati dalla ricerca di effetti che sapevano come puntare al cuore del lettore. Ma c’è da riconoscere che, all’acuta sensibilità d’un Di Giacomo, s’accoppiava l’adeguato sostegno di un materiale linguistico di prim’ordine, ricco al punto che, Poeti o scrittori che si fosse, avevano ogni mezzo per esprimersi degnamente. La lingua napoletana è pregna di spontanea veracità già nei vocaboli (prima che negli effetti). Poi l’arte del poeta fa il resto, in ispecie quando sa come raggiungere l’intimo di ognuno, percorrendo una strada spianata da tutta una serie di altri prosatori e verseggiatori d’antica tradizione.
Invece il Molise non ha mai potuto formarsi una tradizione tutta sua; e la scrittura locale risente della vicinanza di quella napoletana, pugliese, abruzzese nonché di elementi linguistici, albanesi e slavi. Ecco perché occorre riconoscere il valore di Giovanni Cerri, casacalendese, che è riuscito a dominare influssi e reminiscenze altrui, raggiungendo compattezza di linguaggio e mirabile omogeneità. Cerri è riuscito a fare suoi i più variegati toni e le più belle espressioni del vernacolo molisano perché “sente nell’intimo il vero spirito della sua Terra, al punto di riuscire a parteciparci tutta l’ispirazione che gli parte dall’animo nella contemplazione idilliaca delle sue cose, della sua piccola patria e dai suoi ‘paesani’”. I personaggi che introduce (il porcaro, il cafone, il pecoraio …) gli permettono di esternare un linguaggio dolce e malinconico. Quando racconta delle tante figure dèdite alla terra sa come difenderle accuratamente, utilizzando la voce del suo cuore ed i giochi di antitesi delle strofe. Ma, quando ci pone dinanzi agli occhi il custode dei porci, immortalato nella solitudine del suo misconosciuto lavoro, i versi si fanno stringati (“… port’a pasce sette puorce e ‘na screfèlle”) ed il Poeta l’accompagna sinché, “cammenànne, ascàpele” e “’a canzone de nu rille aresòne cu cefiélle”.
Nelle sue liriche il Cerri raggiunge l’essenzialità e l’elementarità di linguaggio di un bambino meravigliato – eppure cosciente – di ciò che gli gira intorno. Leggendone i versi, pare d’ascoltare non la voce del Poeta, col suo bagaglio fine di erudizione, quanto piuttosto un vero pecoraio abituato – nelle lunghe soste sui luoghi del pascolo – a contemplare estaticamente le stelle del cielo. Ed a chi, nella sua ingenuità di ‘contadino’ molisano, egli potrebbe paragonare le stelle se non ad un buon pastore che, dopo di averle condotte in giro per i pascoli del cielo, paternamente le riconduce allo stazzo, ricontandole per verificare se qualcuna si sia dispersa. Per tutte. Una (Nu’ Cigne):”Arecalà nu’ Cigne / pe’ m’arefà nu ’bagne. / Deventà / na stizza d’acquara / e calà dent’a nu hiòre / pì toll’addòre / e purtarle u mare”.
Giovanni Cerri nacque nel 1900 a Casacalenda. Amico di un altro grande, lo scrittore Francesco Iovine (di Guardialfiera), intraprese con lui la carriera dell’insegnamento. Ha abitato, sino alla morte, in corso Roma 103. In vita ha pubblicato, per i tipi della Rebellato di Padova, la raccolta “I guaie”, un volumetto in brossura di 128 pagine, con testo italiano a fronte. L’ultima ‘chicca’, “Nu Campesante: U core di mamme, / quanne ze stracche / de pregà, / lasse ‘a crone ‘na case / e ze va a repesà”.
Claudio de Luca