TERMOLI. «Il coronavirus ha ucciso mio padre»: la testimonianza di Davide Di Renzo a Termoli in Diretta.
Il Covid-19 ha mietuto migliaia di vittime solo in Italia, strappandole all’affetto dei loro cari con una violenza ed una velocità che nessuno si sarebbe mai aspettato. Il suo arrivo in Molise, seppure in ritardo rispetto al Nord del paese, è stato silenzioso, improvviso ed ha colpito con la stessa brutalità mostrata altrove, portandosi via tredici persone e contagiandone 222, fino al 7 aprile. Uomini e donne radicati nella nostra società, padri e madri di famiglie, giovani, anziani che, da un giorno all’altro, hanno dovuto dire addio ai loro cari, senza sapere se li avrebbero mai rivisti.
Persone, seppur identificate da numeri per aiutare a tenere il conteggio di quella che, finora, è la più violenta epidemia del secolo, che si lasciano dietro tutto ciò che di buono hanno costruito. Come Giovanni Di Renzo, storico e stakanovista imprenditore termolese, con il sorriso sempre stampato sul volto, quasi come fosse una naturale prosecuzione dei suoi tratti, che nella sua città ci ha creduto e vi ha investito: dapprima con il negozio di tendaggi dove il cliente si è sempre sentito a casa, successivamente con l’attività di ristorazione Don Giovanni, eredità dei figli da diverso tempo e di cui porterà per sempre il nome, in quegli stessi locali dove, anni prima, aveva scommesso con il suo negozio.
La notizia della sua morte, avvenuta solo due settimane fa (il 18 marzo per l’esattezza), ha fatto il giro del web in fretta, accompagnata purtroppo da commenti offensivi ed ingiuriosi, oltre che da illazioni ed odio, contro la famiglia Di Renzo. Uno dei suoi figli, Davide, accompagnato dal nipote Giovanni, malgrado la riluttanza a fornire la sua testimonianza, come sottolineato dall’editore di TermoliOnLine Nicola Montuori, ha voluto raccontare la sua storia nello spazio ‘Termoli in Diretta’ e mettere un punto, una volta per tutte, ai commenti dei webeti (termine che identifica la categoria di persone che, nascondendosi dietro l’anonimato del web, scrive cose stupide, povere, aggressive e prive di alcun fondamento verificato, ignara delle conseguenze delle proprie azioni).
Il racconto è partito, com’è giusto che sia, da chi era Don Giovanni, anche se tutti lo conoscevano e la sua impronta resterà per sempre scolpita in città. «Don Giovanni ha vissuto appieno tutta la sua vita – le parole dedicate al defunto dalla ragazza di Davide e lette proprio da quest’ultimo – Godendo ogni singolo istante e fino alla fine. Lui sapeva vivere, sapeva ridere. Ci ha insegnato con il sorriso ed il buonumore che la vita è preziosa e non va sprecata, ma apprezzata e vissuta nella sua totalità». Messaggi simili sono giunti alla famiglia da «ogni parte del mondo – ha confermato Davide con la voce rotta dalla commozione – Dalla Francia, dall’Australia, dall’America. Da ragazzi poco più che maggiorenni. Papà ha lasciato il segno, in tutti. Con il suo modo di fare, di avvicinarsi, di essere sempre disponibile anche con i bimbi, con i ragazzini. Gli volevano bene tutti e, per alcuni, era un mito».
Quali sono stati i sintomi, le preoccupazioni iniziali?
«I primi giorni non sono passati con grandi problemi: intorno al 5 marzo papà ebbe un’indigestione che proseguì per qualche giorno. Nulla che facesse presagire ciò che accade in seguito. Pian piano si è aggiunta un po’ di febbre, più o meno persistente che andava e veniva, con una temperatura sui 37°-38° che poi si stabilizzava nuovamente sui 36°. Nulla di che. Il tutto condito da un umore basso e da una forte depressione. Reagiva poco, non era lui. Era un po’ troppo spento. Prima che succedessero gli eventi drammatici, pensavamo ad uno stato di ansia o di depressione forte, dovuto magari alle preoccupazioni per i figli o per il locale. È stato sempre un commerciante e vedere un locale, che porta il suo nome, chiuso lo ha colpito. Avevamo addirittura comprato degli ansiolitici. Di sintomi evidenti, come ad esempio la tosse, non ne aveva. Zero».
Quando sono peggiorate le cose?
«Intorno al 17 marzo, il giorno prima della sua morte: il suo respiro è divenuto affannoso durante la notte tanto da spingerci a chiamare il medico il giorno successivo. Da un minuto all’altro non respirava più bene. Il medico è arrivato velocemente, è stato gentilissimo. Mio padre si è anche alzato in piedi. Il medico ha chiamato subito il 118 che è arrivato rapidamente. Abbiamo incontrato una dottoressa e degli infermieri di un’umanità straordinaria, empatici al massimo. Il 118 ha rimbalzato le telefonate, non trovando un accordo su chi dovesse farsi carico di mio padre, se Termoli o Campobasso, e mettendo in discussione anche i suoi valori di ossigeno. La dottoressa si è presa la responsabilità di portare papà a Campobasso, dove è morto. Anche se lui è morto nell’istante in cui ha oltrepassato la porta di casa, dopo aver abbassato la testa. Non lo abbiamo più visto. È finito così».
Non lo avete più salutato?
«Siamo andati davanti all’obitorio, però è finita così. Abbiamo seguito tutto via whatsapp grazie a Jovine che ci ha inviato anche l’audio e le foto. Il giorno successivo lo abbiamo tumulato al cimitero, ma non abbiamo avuto nemmeno il diritto di dargli un paio di scarpe o una bella camicia».
Successivamente c’è stato il contagio di uno dei tuoi fratelli.
«Sì, mio fratello Nico, 49enne. Lui era confinato a casa, assieme a noi. Accusava strani dolori dietro la schiena ed ha chiamato il 118 perché voleva appurare l’origine dei dolori. È stato trasferito a Campobasso ed è risultato positivo al tampone. Adesso è a casa ed è guarito, anche se attendiamo il tampone perché deve terminare il periodo di quarantena, ma sul referto risulta clinicamente guarito».
L’unico contagiato, in famiglia, è stato Nico?
«Sì. Ci siamo sottoposti tutti al tampone e siamo risultati negativi. Lo hanno fatto anche coloro che ci sono stati attorno, come il dottore».
Parliamo del polverone mediatico che è scaturito dalla notizia. Noi come TermoliOnLine, anche grazie al direttore Emanuele Bracone, abbiamo pubblicato le tue considerazioni, in maniera del tutto corretta, ma ci sono stati diversi commenti non proprio positivi. Raccontaci cos’è accaduto.
«Innanzitutto voglio ringraziarvi,: in primis te, Nicola, per la tua umanità e quella della tua famiglia, e poi Emanuele che è stato molto corretto. Ti dico solo un aneddoto su come una notizia possa essere manipolata: il 30 marzo, se non erro, è stata diffusa la notizia di un 42enne contagiato, titolare di una nota attività nel centro di Termoli. Hanno pensato tutti a me, l’ho scoperto tramite alcune videochiamate che mi sono pervenute. I miei clienti ed i miei amici, che stranamente non mi scrivevano da giorni, hanno iniziato a farlo. Molte volte la privacy è violata: dettagli come quello del locale in centro o l’età creano un sacco di problemi. Posso garantirlo. Una testata giornalistica online aveva scritto questi dettagli che, per me, sarebbero potuti passare tranquillamente in secondo piano, se fossi stato io il redattore».
Cos’è accaduto sui social dopo la notizia della dipartita di tuo padre?
«Sui social è accaduto di tutto e di più. Non so se ridere o piangere. So solo che alcuni commenti sono stati così cattivi da far passare, in secondo piano, il dolore per la perdita di papà. Ci hanno fatto così tanta rabbia che ci siamo concentrati solo su quelli, senza poter elaborare bene il lutto. È stato traumatico leggere quelle cose o ascoltare audio assurdi, di ex amici che abbiamo riconosciuto ed a cui abbiamo chiesto le scuse. In alcuni commenti sono comparse parolacce che non so come Facebook non abbia censurato. Cose al limite dell’inimmaginabile».
Ti senti di consigliare qualcosa alle persone che ci stanno seguendo?
«Mi sento di dire due cose: prima di divulgare, scrivere o inviare messaggi audio che vi fanno fare pessime figure dato che la città è piccola, fate attenzione a ciò che dite perché fate del male. È traumatico leggerli, non potete immaginare il dolore che prova una persona in quel momento ed in una situazione già di per sé drammatica. A chi, invece, è la parte lesa, dico di soprassedere, laddove si riesca, di evitare i social network che amplificano solo il dolore, creando esclusivamente più rabbia e delusione. Se proprio non doveste riuscirci allora agite per vie legali, come abbiamo fatto noi, rivolgendovi a testate giornalistiche competenti per chiarire la questione e fare il possibile per tenere alto il buon nome della famiglia».