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mercoledì 21 Maggio 2025
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Se la memoria macina: il primo mulino elettrico

GUGLIONESI. Un tempo il rumore delle macine in pietra scandiva il lavoro dei mugnai, ma con l’avvento dell’elettricità tutto cambiò. L’immagine che vi presentiamo è una rara testimonianza di un mulino elettrico dei primi decenni del Novecento, simbolo di un’epoca di transizione tra la tradizione e l’industria moderna.
L’introduzione dell’energia elettrica nella molitura rivoluzionò la produzione della farina, rendendo il processo più veloce ed efficiente. In questa fotografia si possono osservare macchinari imponenti, ingranaggi complessi e operai al lavoro, segno di un’industria in piena evoluzione. Il mulino non era più solo un punto di riferimento per le comunità agricole, ma un vero e proprio centro di innovazione.
Oggi, con il ritorno dell’interesse per la produzione artigianale, questi luoghi storici ci ricordano l’importanza delle radici e del progresso. Un patrimonio industriale che merita di essere riscoperto e valorizzato.
Il racconto che vi presentiamo, è preso dal gruppo Facebook “Guglionesi tra foto e storia”, grazie al lavoro di ricerca di Nicolino Del Torto e Rosanna Piccione.
Uno dei primi mulini elettrici a Guglionesi.
L‘installazione del mulino
elettrico a Guglionesi, si deve all’ingegno di Antonio Della Porta, padre di Edmondo che, prima della Seconda guerra mondiale realizzò questa impresa in paese.
Imelda, figlia di Edmondo così racconta: “Mio padre fu mandato in guerra sul fronte russo come soldato semplice. Guidava i camion con i quali trasportava viveri, altro materiale e al bisogno, spostava i militari. Lui raccontava di essersi salvato per aver seguito il suo spirito di osservazione e intuito. Infatti, un giorno, avendo percepito un imminente contrattacco dei soldati russi, invece di fermarsi per mangiare in una fattoria come gli era stato chiesto dai soldati che stava trasportando, insistette per riprendere la marcia ed allontanarsi dal posto dove si trovavano. Di lì a poco arrivò l’attacco con un bombardamento che uccise molti dei soldati italiani che avevano deciso di fermarsi. Dopo l’armistizio voluto da Badoglio, mio padre si rifiutò di combattere a fianco dei tedeschi e fuggì di notte attraverso le campagne e solo dopo molto tempo riuscì a tornare a casa a Guglionesi.
Una volta in paese, riprese a lavorare presso il mulino di mio nonno Antonio che si trovava tra Portanuova e viale Margherita; il mulino era rettangolare, lungo e stretto. L’attività però non era florida e mio padre, a cui piaceva fare il mugnaio e non si risparmiava nella fatica, pensò di rilevarlo, c’erano altri eredi, cosa che fece poco tempo dopo il suo ritorno. Grazie al suo duro lavoro, poté fare fronte e tutte le esigenze della sua famiglia e i suoi figli ebbero la possibilità di studiare.
C’era un altro mulino vicino al nostro, aperto nel 1940 dai fratelli Battista di Larino, ma la loro attività fu meno fortunata tanto che nel 1957 la cedettero a Francesco Rinaldi che la spostò nel palazzo dove ancora abita la famiglia, a Portanuova.
Il mulino di mio padre era elettrico e veniva utilizzato per macinare cereali di vario tipo al fine di produrre farina o altri prodotti specifici della macinatura. Per la sua attività si avvaleva di diversi macchinari per poter setacciare il macinato e dividere la farina dalla crusca, oltre alle macchine. Aveva diversi macchinari adibiti alla setacciatura del macinato per separare le farine dalla crusca, per il confezionamento dei prodotti in sacchi di diverse dimensioni, dalla più grande da 25 kg a quelle da 10-5 e 1 chilogrammo fino a quella da mezzo chilo.
Si macinava anche il grano duro “Cappelli”, varietà ottenuta dal genetista Nazareno Strampelli agli inizi del XX secolo presso il Centro di Ricerca per la Cerealicoltura di Foggia per selezione genealogica della popolazione nord-africana.
Mio padre aveva due aiutanti, uno era Di Carlo al quale lui voleva bene come a un figlio visto che aveva iniziato a lavorare quando aveva appena otto anni. Mio padre dalla guerra in Russia aveva riportato una bronco polmonite cronica che gli aveva danneggiato un polmone per cui respirava a fatica e il lavoro nel mulino non gli aveva certo giovato alla sua malattia, quindi ad un certo punto decise di smettere di lavorare. Poiché i suoi figli non avevano desiderio di subentrare nell’attività – uno di loro era diventato nel frattempo professore di matematica e preferiva mantenere quell’incarico – pensò di vendere tutto, ma prima proporre a Di Carlo di prendere il suo posto dietro pagamento del solo affitto del locale, ma il ragazzo rifiutò l’offerta e decise di trasferirsi a Lecco. Il mulino così iniziò il suo decadimento e alla fine fu venduto a pezzi, come ferro vecchio. Io però abito ancora dove c’era il mulino, posto nel quale ci eravamo trasferiti dalla casa dove inizialmente abitavamo che si trovava vicino la chiesa Madre”.

Alberta Zulli