X
giovedì 15 Maggio 2025
Cerca

L’eredità di Vincenzo Campofredano oltre la tradizione: coerenza e concretezza nell’era dell’incertezza

Foto Guerino Trivisonno

URURI. Sono passati pochi giorni dalla tragedia che ha scosso Ururi il 3 maggio. Vincenzo Campofredano (foto Guerino Trivisonno), nostro concittadino, è stato colto da un malore mentre correva con il suo cavallo, trainando il suo carro, nel suo giorno.

Non voglio soffermarmi sulle sue doti di leader, né sul padre e marito affettuoso, né sulla generosità sua e della sua famiglia che, con la donazione degli organi, ha saputo trasformare il dolore in speranza. Desidero invece riflettere su ciò che ha reso quest’uomo così speciale da lasciare un segno profondo, non solo in chi lo conosceva, ma anche in chi lo ha incontrato solo di sfuggita, nei paesi vicini o attraverso i racconti degli altri.

Un uomo “solido” in una società liquida.

Viviamo in un mondo dove la morte, purtroppo, fa parte del racconto quotidiano: colpisce bambini, giovani e adulti, sani e malati. Ma perché la morte di Vincenzo continua a far parlare? Chi era davvero quest’uomo? Qual è stato il suo valore?

Me lo chiedo, come donna, madre, insegnante e dirigente. E nella riflessione, mi torna alla mente il pensiero di Zygmunt Bauman sulla società liquida: Vincenzo era un uomo della realtà solida. In un’epoca dove tutto è incerto, dove i legami si dissolvono, i valori si trasformano, e le relazioni si consumano nella fretta e nella superficialità, lui era l’eccezione. Era il simbolo di una fermezza che non ha bisogno di rumore, fatta di gesti concreti e di presenza autentica.

Il tramandare, senza smartphone.

Ha custodito e tramandato tradizioni che per noi, gente delle carresi, non sono solo folklore, ma identità. Ha saputo raccontare a chi non era del posto la bellezza ancestrale di una corsa che affonda le radici nell’anima di un popolo. E ha saputo farlo senza clamore, senza piattaforme, senza filtri. Ha saputo parlare alle nuove generazioni, trasmettendo loro valori antichi con il linguaggio silenzioso dell’esempio.

Chi lavora nella scuola lo sa: è difficile oggi insegnare ai ragazzi che la tecnologia è uno strumento, non un rifugio. Vincenzo, forse senza rendersene conto, ci è riuscito. Ha allontanato i giovani dai cellulari, riportandoli alla realtà: una realtà fatta di relazioni vere, di mani che si toccano, di occhi che si incontrano, di stalle piene di bambini e adulti, di padri e figli che insieme preparano, costruiscono, discutono e vivono.

Le stalle non erano solo luoghi di lavoro. Erano e restano comunità: si parla di tutto, dal calcio alla politica, ma sempre con rispetto e partecipazione. Luoghi di aggregazione viva, reale, dove l’incanto del virtuale non ha mai vinto.

Una realtà fatta di abbracci e sudore.

Vincenzo ha dato valore al tempo, in un’epoca in cui il tempo sembra scivolare via senza che ce ne accorgiamo. Ha costruito una realtà fatta di abbracci sinceri, di strette di mano, di sorrisi e lacrime. Perché sì, la carrese è anche dolore, fatica, scontri e sconfitte. Ma è soprattutto passione, identità e radici.

Portare avanti questa tradizione non è solo un atto di orgoglio paesano: è un gesto di amore verso ciò che siamo stati e ciò che possiamo ancora essere. Vincenzo ha rappresentato questo amore. Ha incarnato la necessità, oggi urgente, di tornare a credere in qualcosa di vero, di tangibile, di condiviso. È stato un punto di riferimento per una società che cerca disperatamente figure a cui affidarsi.

Ecco perché oggi è così difficile dirgli addio.

Grazie, Vincenzo!

Grazie per ogni volta in cui sei riuscito, con la tua sola presenza, a strappare i nostri figli agli schermi, riportandoli a vivere con mani sporche di polvere e occhi pieni di luce vera. Grazie per aver insegnato che i valori si costruiscono nella realtà, nei legami autentici, nelle corse sfrenate con carretti di legno e ruote di bicicletta. Grazie per averci ricordato che una società solida esiste ancora, quando è fatta di tempo condiviso, cura reciproca e gesti sinceri.

Il tuo cuore si è fermato dove tutto aveva senso per te: sul tuo cavallo, nella tua Ururi, tra la tua gente, nel tuo giorno – il 3 maggio.

Ma prima di lasciarci, hai trovato ancora una volta il modo di essere concreto, vero, presente.

Hai trovato il tempo – nel tempo che stava finendo – per un ultimo gesto d’amore, reale, tangibile, profondo: la donazione dei tuoi organi. Anche nel momento estremo, hai scelto di dare, di essere utile, di restare presente nelle vite di altri.

E mentre il cielo annunciava al mondo Habemus Papam con il bianco della fumata dalla Cappella Sistina, tu intraprendevi il tuo ultimo viaggio. Un passaggio misterioso e solenne, come se il destino avesse voluto sottolineare che anche la tua partenza era qualcosa di sacro.

Ci hai insegnato a vivere, e ora – con umiltà e dignità – ci insegni anche come si può partire lasciando luce.

Troppi segni, Vincenzo, per non credere che continui ad accompagnarci da qualche parte.

Continua a illuminarci.

E ancora una volta, grazie.

Luana Occhionero