TERMOLI. L’amica banale. Il passo da madri rifondatrici a figlie del part-time sembra essere sempre più breve.
Diciamo, intanto, che la questione femminile ha sollevato non pochi disordini sociali in questi ultimi decenni, in una realtà dove, nell’ordine naturale delle cose, la donna acquisiva per diritto di nascita il titolo di «regina della casa», mentre ora sarebbe chiamata a proporre l’infausto compito del cambiamento culturale per incarnare il ruolo di paladina dei diritti umani per quattro ore al giorno.
Così, se da un lato ha conosciuto la protesta collettiva, dall’altro sembra esprimere l’esigenza di voler perpetuare il proprio ruolo domestico anche sul lavoro, al punto che viene da chiedersi perché aspirare ad averne uno.
Il sospetto è che, dietro lo slogan, in molti casi si nasconda una mera necessità economica, più che una reale spinta di autonomia, che spesso si traduce anche nella possibilità di lasciare il lavoro se non ce n’è stretto bisogno.
In altri casi, invece, molte donne scelgono soluzioni che si adattano al ruolo familiare, come il lavoretto precario sotto casa, che non le sottrae all’impegno di mogli, madri e casalinghe e che, nel frattempo, arrotonda le entrate.
Ebbene, in questa cornice di conformismo, dove si pone esattamente la questione femminile, se poi ci accasciamo sulla prima poltrona che ci viene offerta come espletamento al nostro impegno sociale?
Forse la risposta sta nel disimpegno, nella tendenza a prendere le distanze dall’archetipo del cambiamento, perché, diciamocelo, non fa comodo a nessuno!
Mi guardo intorno e vedo tante donne gridare all’autonomia di genere, ma ripercorrere le orme delle proprie madri, perché hanno visto che ce l’hanno fatta lo stesso, solo curando il piccolo del proprio focolaio.
Volti senza slancio né ambizione mi passano accanto, soggiogati da un sistema che ci vede perfettamente allineate nella comodità delle cose comuni, che non richiedono impegno e lasciano spazio alla mediocrità.
Ed è deprimente realizzare quanto ancora oggi le donne incontrino difficoltà ad entrare in un “ordine produttivo”, segnato dalla frattura tra motivazione e scopo, e per questo scelgano la via più semplice, quella in cui apparire immediatamente utili a qualcuno o qualcosa, che sia la casa, il marito o la prole, riducendo il lavoro ad una possibilità circostanziale, non necessaria a realizzare la propria autonomia, ma utile per far quadrare i conti a fine mese.
E quanto è vero che gli uomini non percepiscano questa frattura, perché hanno trovato nella donna l’elemento di soddisfazione delle proprie esigenze materiali ed affettive, e pertanto l’elemento di equilibrio tra lavoro e privato.
Forse basterebbe porsi come strumento di contributo alla società, invece che come tappabuchi del sistema; forse aiuterebbe immaginarsi in un contesto dove non solo gli uomini dispongono dell’avvenire, invece di crogiolarsi nel lusso del prevedibile e del potrei ma non voglio.
E magari la lotta per le pari opportunità avrebbe più senso, se si scendesse in strada unicamente come persone, invece di manifestare come metalmeccanici e disoccupati, parlando di condizione di classe, visto che le donne non smettono di essere donne, neanche quando chiudono le fabbriche.
Ma questa è un’altra storia e intanto ci lasciamo scivolare nelle pantomime domestiche,
perché la donna ribelle, che non si dichiara totalmente appagata nella supina abnegazione alla volontà del marito, è anche l’amica banale che non vuole di più di ciò che ha.
Angelica Silvestri