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domenica 16 Novembre 2025
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Tra vicoli, icone e radici albanesi dimenticate: le opere di Michele da Valona

GUGLIONESI. Ci sono luoghi che non gridano la loro bellezza, la sussurrano. Guglionesi è uno di questi. Tra le pietre levigate e i vicoli che si stringono fino a farsi respiro, la memoria non è un museo: è una voce sommessa che torna a parlare, se solo qualcuno si ferma ad ascoltarla.

Un tempo, dietro le mura e nei vicoli che scendono da via Guiscardo, vivevano famiglie venute da lontano. Arbëreshë, albanesi d’Oriente, approdati qui quando i porti non si chiudevano e neppure i cuori. Hanno lasciato lingua, fede e un modo diverso di guardare il cielo. Don Nicola Mattia, nel suo Con gli occhi di Adamo, ricorda che “nel dialetto sia il largo che il vico prendono il nome dalla chiesa di San Pietro, in uso degli albanesi che qui venivano a invocare la misericordia dell’Altissimo secondo le loro usanze, riti e tradizioni”.

In quella chiesa, ora casa d’uomini, “avevano il loro clero”, scrive, “e a testimonianza di ciò troviamo raffigurato in un trittico su legno la Madonna con Bambino tra i santi Pietro e Paolo, il presbitero con la sua presbitera.” Perfino un soprannome antico, “Lalisott”, conserva un’eco di quella presenza remota: “significa anche ‘il fratello grande al cospetto di Dio’ e indicava il presbitero del rito greco”.

Guglionesi, da allora, parla due lingue: quella dell’Occidente che la ospitò e quella dell’Oriente che la abitò.
Di quell’incontro rimane la testimonianza più alta nelle opere di Michele Greco da Valona, pittore giunto da oltre l’Adriatico, che a inizio Cinquecento lasciò nel borgo i segni luminosi della sua arte. Don Nicola lo chiama “un uomo di fede, un uomo che si è lasciato illuminare dalla Madre di Dio, dalla stella del Mattino”. E nei suoi volti di Maria “si respira una serenità che, guardandoli, sembra di essere dinanzi alla Porta del Cielo”.

Ma la grandezza di Michele Greco non è solo artistica. È un ponte. “Ha preso i caratteri iconografici della Chiesa in Oriente e li ha espressi nelle figurazioni canoniche della Chiesa in Occidente, facendo sintesi senza sincretismi e donandoci i lineamenti essenziali della sua esperienza di fede”. Nel suo autoritratto, spiega ancora don Nicola, “si ritrae in un contesto iconologico orientale ma in una figurazione mariana quasi esclusivamente occidentale.” L’umiltà lo spinse a nascondersi “così bene che, pur essendo sotto gli occhi di tutti, nessuno lo nota”.

Poi, nel passo più sorprendente del libro, la voce del santo patrono Adamo si intreccia con quella del pittore in un dialogo che sembra una parabola: “Passeggiando con altri santi per il paradiso, incontrai Michele… Gli chiesi: “Maestro”, perché nel trittico di Guglionesi mi hai dipinto con il collo taurino?”. Il pittore sorrise: ‘Perché in obbedienza a Gesù hai portato il suo giogo dolce e il suo carico leggero… Senza il collo taurino per portare il giogo di Cristo non saresti qui.’ A quelle parole rimasi senza parole”.

E infine, la frase che pesa come un monito: “Se Guglionesi avesse chiuso le sue porte a queste genti, ora sarebbe più povera di bellezza, di testimonianza, di una fede profonda e sincera”.

Oggi, mentre Ururi e Montecilfone si preparano ad accogliere il presidente della Repubblica d’Albania, Guglionesi resta fuori da ogni itinerario ufficiale. Eppure proprio qui, dove Michele Greco da Valona unì l’Oriente e l’Occidente nella luce della fede e dell’arte, l’incontro fra culture è già avvenuto cinque secoli fa.
Un paradosso ancora più evidente se si pensa che le grandi tavole del Valonese sono state esposte all’Expo di Milano e a Matera, Capitale Europea della Cultura, mentre nel paese che le custodisce vengono spesso ignorate.

Non è questione di campanilismo, ma di visione. Promuovere la storia arbëresh del Molise non significa solo organizzare cerimonie, ma riconoscere che la nostra identità è fatta di incontri, non di confini.

Guglionesi non ha bisogno di inventarsi nulla. Ha già tutto: la pietra, la devozione, l’arte e la memoria. Basta aprire gli occhi e forse anche qualche porta.

Alberta Zulli