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martedì 7 Ottobre 2025
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L’ascesa della destra a forza di governo: pagine di storia raccontate da Gianfranco Fini a Larino

LARINO. Per la quarta volta a Larino nel corso della sua carriera politica, Gianfranco Fini ha calamitato l’attenzione di tutti, stasera, nella sala Freda del Palazzo Ducale, dove si è presentato il saggio a cura di Fabrizio Tatarella “La destra di Governo”, da Pinuccio Tatarella a Giorgia Meloni.

Il lungo cammino della Destra in Italia, dalla politica di testimonianza del Msi di Almirante alla guida della Nazione con Fdi di Giorgia Meloni, questo il tema del convegno storico-politico animato dalla presenza di colui che è stato un protagonista assoluto di un lungo tratto di questo percorso, Gianfranco Fini, leader di Alleanza Nazionale, chiamato a indicarne le ragioni e i momenti salienti  di questa straordinaria evoluzione, della quale è stato innegabilmente importante artefice, intervistato da Antonio Lupo, Caporedattore del Tg3 Molise. Accanto a lui, Pierluigi Lepore, organizzatore, assieme a Fabrizio Tatarella.

Diversi gli esponenti istituzionali presenti, tra cui il senatore Costanzo Della Porta, il presidente del Consiglio regionale Quintino Pallante, gli assessori regionali Michele Iorio e Michele Marone, nonché il coordinatore di Fdi Molise, Filoteo Di Sandro.

Lavori aperti da Gino Lapenna, quindi Graziella Vizzarri, Pallante, Di Sandro, poi Lepore e Lupo, per lasciare spazio a Fini, che ha raccontato l’ascesa della destra dai tempi con Almirante, che lo volle alla guida del Msi, fino alla svolta di Fiuggi e al Pdl con Berlusconi, per poi assistere dall’esterno all’epopea meloniana di Fratelli d’Italia.

Quasi 50 anni di storia del Paese, da quando Fini era il leader del Fronte della Gioventù, fino a diventare Ministro degli Esteri e presidente della Camera, ora con una destra che esprime il premier.

Si parte proprio da Almirante: finalmente un partito, il Movimento Sociale Italiano, che aveva deciso di partecipare alle elezioni, accettando la sfida della democrazia. Era una scelta che, fin dall’inizio, appariva difficile e controversa: bisognava regolarsi in Parlamento, ottenere consenso nell’opinione pubblica, dimostrare di poter dare vita a un sistema statuale moderno, a un assetto economico e a una giustizia sociale diversi, ma possibili.

Fino al giorno in cui la segreteria nazionale del Movimento Sociale si trovò di fronte a un passaggio decisivo: il congresso del partito. Lì bisognava scegliere una strada. Non era affatto una passeggiata. C’era chi mi diceva chiaramente: “Non puoi tradire i valori di riferimento, cosa direbbero i nostri compagni, i nostri partner, quelli che hanno dato tanto a questo movimento?” Io, invece, ero convinto che la sfida fosse necessaria, anche se sentivo tutto il peso di quella decisione. Sapevo che era la via giusta, confortato dal consenso di tanti.

Innanzitutto, c’era un insegnamento che avevo raccolto da chi mi aveva preceduto, testimone di un impegno che non era mai venuto meno. Lui stesso mi disse che la salute lo aveva indebolito, ma che l’Italia e il partito non potevano fermarsi. Continuava a macinare chilometri, a incontrare anche i più umili tra gli iscritti, a visitare i paesi più sperduti. Non era un segretario che gestiva il partito col potere, ma con la presenza e con la fatica.

Ricordava spesso le difficoltà del dopoguerra. Mi raccontava che, negli anni ’50, non solo mancavano i mezzi, ma spesso chi partecipava ai comizi lo faceva solo per impedirgli di parlare. Eppure, era convinto che quella fosse una missione necessaria, da continuare. Mi diceva anche: “O il Movimento Sociale saprà rigenerarsi, oppure, quando se ne andranno uomini come me, finirà anche la sua storia. Serve un salto generazionale.”

Ed è proprio su questo che mi trovai a riflettere: era necessario guidare il partito verso una nuova fase, chiudendo quella costruita da lui e da altri, e allo stesso tempo aprendo una prospettiva nuova, adeguata al contesto storico che stava cambiando. Una destra che non rinnegasse le sue radici, ma che fosse in grado di nuotare in acque nuove.

Sul piano generale, lo scenario stava cambiando radicalmente. Tra il 1989 e il 1991 crollarono i regimi comunisti dell’Est e si dissolse il Partito Comunista Italiano, che era stato un grande partito popolare di massa. Cambiò nome, cambiò simbolo: fu la famosa svolta della Bolognina di Occhetto. Si trattava di una scelta necessaria, perché quel mondo era crollato e restavano solo macerie politiche e ideologiche.

In contemporanea, la caduta del Muro di Berlino si intrecciò con un’altra stagione: quella di Mani Pulite. Le prime inchieste mostrarono un livello elevatissimo di corruzione dentro la politica, soprattutto nei partiti che avevano governato e gestito enormi risorse, usate anche per campagne elettorali costosissime.

Indimenticabile l’immagine dei socialisti accusati, dei “forchettoni” che diventavano simbolo di un sistema alla deriva. Tutti i partiti, in fondo, si giustificavano dicendo che la politica aveva un costo e che, per finanziarsi, avevano bisogno del contributo di chi poteva guadagnare un vantaggio. Ma era proprio quel sistema ad essere crollato, e con esso una stagione della Repubblica». Lì nacque la trasformazione del Msi in Alleanza nazionale, che portò nel 1994 la destra al Governo, le stagioni con Berlusconi alleato, fino alla nascita del Pdl, la ‘cacciata’ di Fini e l’avvento di Fdi.

Emanuele Bracone