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martedì 4 Novembre 2025
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Varchi attivi: viaggio nella salute mentale

TERMOLI. Approfondiamo i temi legali alla salute mentale, al centro della proiezione di lunedì scorso del docufilm “Varchi Attivi”, che con la pregiata e celeberrima voce narrante di Michele Placido, ha portato a compiere un viaggio nel basso Molise. Il lavoro è stato proiettato a Roma “Lo Spiraglio”, a Napoli al “Premio Rossano”, a Napoli alla “Camminata con Marco Cavallo”, a Perugia al “Congresso internazionale dell’Isps”, a Termoli al Convegno “Nessuno è un’isola”, a Cagliari per una giornata formativa dell’Arpa, a Casacalenda al Festival Cinematografico, a Ivrea alla Scuola di Psicoterapia Ipap. A spiegare la ratio dell’opera è il dottor Angelo Malinconico,

«Il Docufilm “Varchi attivi” nasce da un’idea del presidente della Cooperativa “Nardacchione”, Alessandro Prezioso e del regista, Pasquale D’Imperio. La cooperativa gestisce da circa 40 anni le Comunità Terapeutiche dell’area del Basso Molise, incardinate nei Servizi per la salute mentale che ho fondato e diretto fino a pochi mesi fa in quel territorio. Da un “omaggio” a un modello locale da tutti noi incarnato, il docufilm è gradatamente diventato una riflessione allargata, fino a coinvolgere Benedetto Saraceno (già direttore del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze dell’OMS), Silvano Tagliagambe (già professore di filosofia in varie università) e altri personaggi della cultura post-centottanta. Si è quindi trasformato in una riflessione sulle luci e sulle ombre della 180 stessa e una proposta di teorie e prassi di psichiatria sociale, a partire dalla connessione stretta (oggi si parla di sharing) tra servizio pubblico e privato sociale, co-costruttore alla pari dei processi di cura, perseguendo la responsabilità eticamente ineludibile, in opposizione al potere preteso e agìto dei Servizi.

Nelle esperienze che ho fondato e condotto ho sempre cercato di evitare che le figure cosiddette tecniche del Centro di Salute Mentale fossero delegate in solitudine ad attuare i progetti di cura, ma che partecipassero ai progetti abilitativi con una presenza fisica costante nelle strutture territoriali. Solo così la storia e le storie, le geografie e le peculiarità antropologiche, sociali, economiche, possono essere esplorate con delicatezza, rendendo compiutamente esprimibili valenze terapeutiche profondamente laiche, fuori da ecclesie che già sanno tutto, fondamentaliste.

Definisco nuovi setting tali luoghi, sinergie e modalità sempre dinamiche di interazione tra i differenti saperi in campo. Se è scontato che tutti gli operatori non possano andar bene per tutti i progetti, è altrettanto vero che occorre sforzarsi per attivare una continuità nei vari segmenti di affrancamento del paziente grave. E i Servizi, contenitori di esperienze, richiedono sforzi mutevoli, umiltà nei ripensamenti, a volte persino veri e propri cambiamenti bruschi di rotta, onde evitare le scissioni nette e favorire processi di cura sempre più de-medicalizzati.

Non sono meno impegnativi gli sforzi necessari da parte del privato sociale: evitare di progettarsi semplicemente in termini di posto-letto, mettendo piuttosto a disposizione se stesso come sapere capace di accompagnare il paziente in un quotidiano utile, ricontrattando continuamente ruoli e finalità; non rincorrere parodie di interventi tecnici, confondendo la naturale relazionalità ricca con l’acquisizione di poteri decisionali presuntuosamente autonomi; rendersi realmente e umilmente disponibile verso le varie forme di supervisioni concordate.

Da questo punto di vista, diventa centrale esaminare quali processi le azioni delle reti di cura – siano esse pubbliche, del privato sociale o anche del privato-privato – inneschino nel contesto sociale e comunitario, e come esse interagiscano con quei processi che in tale contesto autonomamente si producono. Si tratta, allargando l’orizzonte, di un esame indispensabile per ripensare culturalmente le discipline psicologico-psichiatriche e per sottrarle agli attuali processi di istituzionalizzazione, che le confinano in un’ambulatorietà diagnostico-terapeutica e rischiano una neo-manicomializzazione decentrata e parcellizzata», contenuti al centro dell’intervista realizzata dalla collega della rivista di cinema e psicoanalisi “Eidos”, Barbara Massimilla.

Lo spunto viene dai 46 anni di applicazione della legge Basaglia, che abolì i manicomi. «Da più parti si parla di “modello 180” in crisi. In realtà il modello e tutto l’apparato culturale ed etico che lo sostiene sono tutt’altro che defunti – spiega Malinconico – son cambiate però tante cose: il depauperamento delle risorse; appiattimenti e ingabbiamenti in scelte votate a teorie, algoritmi e prassi presunto-generalizzabili; subordinazione a una certa politica (e con essa a una parte della magistratura); principalmente un netto privilegiare del perseguimento delle “vie brevi” in ogni intervento. Con ciò rispondo anche alla seconda parte della domanda: il debito è verso chi ha sempre proposto la centralità del soggetto e non l’omologazione, la complessizzazione curiosa e progettuale e non la semplificazione uniformante. Un riferimento tra tanti a Gramsci, che afferma nei suoi Quaderni dal carcere, “Semplificare significa snaturare e falsificare. (…) Il mondo è una unità, si voglia o non si voglia”. Tra le innumerevoli proposte che porto avanti da oltre 40 anni, ne scelgo solo alcune: una stretta interconnessione, coerente e umile, tra le residenze e tutti i servizi del DSM; una libertà (seppur coordinata dal servizio pubblico) di muoversi sul territorio su cui insistono le residenze, cercando ogni risorsa sociale, economica, culturale utile al progetto complessivo per il soggetto/paziente; autorevolezza riconosciuta nella co-costruzione del Progetto Terapeutico Individualizzato dal momento dell’ingresso in Comunità, fondata con quella che proprio con Benedetto Saraceno definivamo già 35 anni fa “la competenza nelle pratiche”; l’attitudine al confronto con altre esperienze di altri territori e con pratiche di supervisione di marca psicodinamica.

174La riflessione ha ruotato intorno al tema delle Residenze per la salute mentale e all’interazione tra Servizio Pubblico e Privato Sociale, in un’ottica psicodinamica.

In Italia il mondo delle Comunità Terapeutiche ha fruito, fin dalle prime esperienze negli anni ‘70, del fondamentale apporto di operatori riuniti in cooperative (operatori cosiddetti laici).

Evidenzio quanta difficoltà si incontri a definire il termine laico, proprio per l’aspetto cangiante di questi attori della residenzialità; una componente che, se sinergicamente integrata nel complessivo sistema di presa in carico, ha pari dignità nel globale processo di cura. In linea generale mi riferisco agli operatori del privato sociale che, almeno all’inizio della loro esperienza lavorativa nelle residenze, non hanno fruito di articolati percorsi formativi o acquisito titoli professionali specifici.

Del resto Jung nel 1958 già affermava: “Ho visto risultati veramente miracolosi in cui semplici infermiere e profani sono riusciti, con la loro comprensione, il coraggio personale e la paziente dedizione, a ristabilire il rapporto psichico col malato e in tal modo a ottenere sorprendenti guarigioni”.

La mancanza di rispettosa interazione tra le due componenti (quella pubblica e quella del privato sociale) può portare a risultati disastrosi, poiché viene statutato un equivoco pregno di potenzialità aggressive, distruttive, fondato su deleghe sfiducianti, invidia, ambiguità, ambivalenze. Tutto ciò è nella stessa semantica del termine “laico”, se ci si riferisce a subalternità, a inquadramenti giuridico-amministrativi squalificanti, a matrici culturali povere (e che tali si vuole rimangano). Volendo sintetizzare la mia lettura sull’argomento direi che il maggior responsabile della qualità o della non qualità dell’apporto del privato sciale è proprio il Servizio pubblico. Quest’ultimo ha infatti la possibilità di affossarne o elevarne l’apporto attraverso un “semplice” movimento: considerare tali operatori una manovalanza cui appaltare il “banale” quotidiano, oppure considerare il quotidiano come forno alchemico nel quale avvengono le relazioni e i fatti davvero significativi ai fini dei procedimenti di cura.

Affinché i percorsi residenziali siano caratterizzati da reale processualità nei programmi terapeutici per pazienti gravi, occorre che ci si trovi dentro “focolari caldi”. Si delineano necessità ineludibili: la circolarità delle cure; l’equilibrio tra l’attenzione al mondo interno così come a quello esterno; la potenziale ricchezza di operatori del privato sociale che condividono il quotidiano col paziente; le dimissioni nel segno della continuità e della processualità terapeutica e non millantate come tali; il costante impegno rivolto senz’altro all’inclusione sociale del paziente quanto a migliorare le capacità della comunità civile di accogliere lo stesso paziente con naturale accettazione della “diversità” e predisposizione democratica a rimodularsi (non “a causa” del disabile psichico ma “grazie” allo stesso soggetto).

Ritengo che ciò possa accadere seguendo due assunti di base: concepire il percorso residenziale quale accoglimento temporaneo e congedo concordato, metafore di un tempo da esperire secondo una modalità di continuità-discontinuità, propria dei legami sani e consapevoli. Con tali concetti definisco, rispettivamente, l’impegno a considerare il percorso residenziale ab initio come una tranche a termine e il successivo, conseguente, coerente momento della separazione verso altre forme di esperienza e di inclusione, che deve essere ipotizzato, in nuce, già nella fase di progettazione dell’inserimento in Comunità.

La mia doppia identità di analista di formazione junghiana e di psichiatra, ma principalmente di operatore dei Servizi pubblici per la salute mentale, impegnato immediatamente dopo il varo della legge di riforma dell’assistenza psichiatrica, mi consente di poter proporre riflessioni tra il consuntivo e il progettuale, ben consapevole di quanto il momento di profonda crisi economica e delle istituzioni condizioni ogni prospettiva. Ritengo, però, che tale contingenza non solo non debba impedire di salvaguardare oltre un quarantennio di lotte e conquiste, ma possa fare da stimolo per escogitare e proporre vie nuove, facendoci appropriare (finalmente) della famosa e tanto vituperata espressione “in efficacia e in efficienza”; vituperata perché da sempre legata a un modello economico-burocratico algido e ingabbiante, che probabilmente riguarda anche un nostro miope abdicare a favore di un presunto primato della clinica, che in effetti non si sa bene cosa significhi e troppo spesso diviene alibi per arroccamenti».

Presentazione del docu-film “Varchi attivi”

Recita Michele Placido (la voce narrante): “tanti anni fa a Casacalenda, un piccolo gruppo di giovani determinati, coraggiosi e gioiosi; idee non molte ma molto chiare: essere malati di una malattia mentale non deve precludere il diritto a vivere, a scambiare affetti, a fruire di luoghi e tempi di vita quotidiana dignitosi. Sullo sfondo le grandi idee dei grandi maestri: deistituzionalizzazione, diritti, ristoricizzazione, banalità e santità della vita quotidiana. In fondo l’idea generale era che ognuno ha diritto a vedere riconosciuto il “senso” che sa e può produrre, che nessuno ha diritto di decidere cosa abbia senso e cosa non ne abbia”.

Questo è il milieu nel quale nasce il docu-film “Varchi attivi”, prodotto da Kerem Cooperativa Nardacchione. La voce narrante è appunto quella di Michele Placido. Gli intervistati sono Benedetto Saraceno, Angelo Malinconico, Silvano Tagliagambe, Alessandro Prezioso, Giovanni Di Stasi, Enrico Marchi, Antonio Di Lalla.

Il luogo è rappresentato dal territorio del basso Molise, con i servizi per la salute mentale gestite dal terzo settore (Cooperativa Nardacchione: Comunità Terapeutiche “Il Casone” e “SMI”) e da quelli pubblici (le classiche istituzioni CSM e “satelliti”).

Il prodotto video si snoda attraverso varie linee (che cercherò di delineare), ma un assunto di base è: la Psichiatria è un fattore di rischio e noi operatori della psichiatria dobbiamo invece divenire un fattore di protezione.

La Comunità Terapeutica, nel suo intento di cura, è caratterizzata da numerosi fattori specifici, doverosamente da attivare, ma affinché vi sia quel transito dalla routinaria erogazione di semplici trattamenti a processi virtuosi in continua evoluzione (la Therapeìa trasformativa), il comune denominatore che sottende tutti i processi deve essere l’atmosfera, una sorta di metronomo, un tono di fondo che accompagna ogni momento della vita nella/della Comunità, che rende la permanenza nella casa un percorso, seppur momentaneo e pieno di incognite, sperimentato in serenità/felicità.

L’atmosfera, se mentalizzata, può costituire quella base sicura (Bowlby) da cui partire per esplorare nuove possibilità relazionali, prima all’interno della Comunità e poi gradualmente spostando queste possibilità nel mondo esterno.

Il paradigma di riferimento è quello della madre verso il proprio bambino neonato: la madre non ha tecniche ma sa qualcosa che le permette di dare concretezza alla domanda di cura, allevamento ed educazione che il bambino di continuo esprime. La madre sa favorire la domanda del bambino e insieme a lui (insieme fisicamente al suo corpo) costruisce le risposte. Questo chiedere con (cum petere) della madre alleata del bambino ne costituisce la competenza (Saraceno).

La Comunità è essa stessa un potenziale spazio transizionale, e gli operatori, il fare, le cose, non sono altro che oggetti transizionali.

La Comunità può sostenere i suoi ospiti a rendere pensabili le proprie angosce, in una mutualità biunivoca, in cui non si deve semplicisticamente identificare il ruolo del paziente col bambino e quello della madre con la Comunità/sistema-équipe. Anzi, il macro-sistema funziona proprio quando i cosiddetti curanti acquisiscono consapevolezza delle proprie parti infantili e “malate”, se ne prendono cura e, al contempo, riconoscono nei pazienti funzioni curanti utili anche agli stessi operatori. Su di un piano psicoanalitico, sto implicitamente riferendomi a Bion e alla sua funzione alfa, intesa come capacità di trasformare impressioni sensoriali e proto-emozioni (elementi beta) in elementi alfa.

Il ruolo del Servizio inviante è quello di interagire costantemente nella progettazione del percorso di cura, nelle sue verifiche, negli aggiustamenti, nella predisposizione del futuro riaccoglimento sul territorio in termini relazionali, affettivi, logistici, economici, clinici. E in tutto ciò le funzioni materne e paterne non possono essere mai rigide, bensì intercambiabili e adattate alle necessità contingenti del percorso.

Il docu-film affronta da più vertici il tema della psicosi, che è anche inevitabile rischio di fascinazione, specie considerando l’imprescindibile necessità di una vicinanza vera tra terapeuta e paziente, fino a lambire la fusività (Benedetti, Jung, Searles). In un paradossale interscambio di ruoli, più il terapeuta è fragile e permeabile, più egli è capace di con-dividere l’esperienza con lo psicotico, proprio attraverso le ferite interne più profonde; contemporaneamente, egli deve essere così solido da non rischiare di essere tirato giù, nel gorgo della psicosi stessa, ritenendola persino “incantevole”, per dirla con Laerte: «Che lezione dalla pazzia! Pensieri e ricordo, in buon punto! … l’inferno stesso li rende incantevoli» (Shakespeare, Amleto, scena quinta). Il lavoro con la psicosi deve svolgersi lungo quella linea d’ombra permeata di ambiguità sana e terapeutica. Affermava Racamier: “Date all’anima l’ambivalenza e l’ambiguità: vivrà sanamente la sua vita di psiche. Toglietele questi doni, essa zoppica, periclita e perisce” (P.C. Racamier (1992), Il genio delle origini. Psicoanalisi e psicosi, Trad. it., Cortina, Milano, 1993, p. 409). Ma cos’è l’ambiguità? Racamier afferma che “è ambiguo tutto ciò che in una scelta rimpiazza la “o” con una “e”. E’, da altro vertice, il concetto junghiano di fertile tensione tra gli opposti. Ma perché ci sia fertilità, nessuna delle due qualità o nature presentificate dall’ambiguità deve prevalere sull’altra: esse si riuniscono e non si combattono.

In definitiva ambiguità terapeutica è ciò che riesce a unire e non a contrapporre due qualità opposte e che è capace di partecipare contemporaneamente di due nature differenti. Evidentemente mi riferisco a un concetto di ambiguità che si pone come paratìa tra la “doppiezza” consapevole, strategica, lucidamente fruibile e l’ambivalenza di significato psicoanalitico.