TERMOLI. Il Molise vanta il rapporto più alto tra presenze di migranti accolti e cittadini residenti. Lo riferisce il “Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2017” che registra 3.698 presenze. Se la media nazionale si attesta al 3,1%, la seconda regione arriva all’11,9% tra Cat e Sprar, attestandosi all’11° posto ed incidendo per il 2% sul totale nazionale. I comuni molisani che hanno aderito al sistema di accoglienza sono 58 su 136. Viviamo in un’epoca in cui si verificano travasi continui tra aree geografiche, con la conseguenza del concretarsi di trasformazioni sociali nei luoghi d’arrivo.
Oggi, l’affermarsi di strutture sociali multietniche può essere rilevato un po’ dovunque, con evidenza maggiore nelle realtà demografiche minimali. In proposito, la domanda da porsi è: siamo veramente preparati ad affrontare i problemi che queste modificazioni comportano? In sostanza, “capire” questa realtà potrebbe renderci apprensivi e, quindi, più disponibili a cercare capri espiatori tra quelli che la nostra cultura descrive come diversi, anzi come potenzialmente pericolosi? Secondo i dati Istat, almeno qui in Molise, abbiamo dovuto registrare delitti, particolarmente efferati (come in Ururi), i cui protagonisti furono proprio persone provenienti da altre comunità europee, per giunta di sesso femminile. Dunque, potrebbe essere giustificato sentirci meno sicuri per il fatto che si siano verificati episodi del genere. Invece, ove si abbiano a valutare i rapporti interpersonali che corrono tra i Molisani e gli “altri”, parrebbe che gli “stranieri” si siano bene integrati nella società locale che li sostiene pure con un funzionale “welfare” (statale, regionale e comunale).
Perciò parrebbe che non abbiano mai individuato in questi soggetti un capro espiatorio per dare volto a sentimenti di paura. E detta “accondiscendenza” appare notevole proprio perché – di solito – anche per esorcizzare la tensione, usiamo scaricare le nostre angosce proprio sullo straniero, “diverso” per definizione, magari identificato come pericoloso addirittura già prima di averlo conosciuto. Questo succede anche perché il ‘rom’, il migrante, il clandestino sono soggetti deboli, con scarse opportunità di difesa sociale. Perciò, identificare il nemico in essi vuol dire scaricare su di loro una buona dose dell’aggressività che ci portiamo dentro. Di contro, in Molise diventa facile prendere atto della pratica costante di un gesto semplice, quotidiano, automatico: quello per cui, quando si incontri qualcuno, si allunga il braccio destro e si tende la mano in segno di saluto. I discendenti di Cuoco lo fanno correntemente con i propri “fratelli” stranieri, pur non sapendo che – all’origine di questa convenzione sociale, fatta risalire dagli storici al Medio evo – c’è uno scopo preciso: dimostrare che non s’impugnano armi (o insidie) nella mano destra e che, quindi, non si è pericolosi. Però gli psicologi dicono che già questo sia un classico esempio di comportamento, messo in moto proprio per ridurre il carico di paura.
In via pratica, un altro se ne sta ponendo in essere, questa volta da parte della Regione Molise che sta per fare installare in tanti Comuni telecamere a circuito chiuso. La logica che sottende a tali dispositivi è la stessa del “Panopticon”, l’edificio progettato nel ‘700 da Bentham per sorvegliare i prigionieri e gli studenti. L’idea di essere vigilati inibirebbe i comportamenti vietati e servirebbe ad esorcizzare le paure collegate ai furti notturni negli appartamenti. Incrementando iniziative del genere, si eviterebbe di far lievitare il numero di soggetti depressi (e gli esperti dicono che chi teme di subire atti criminali corre un rischio doppio di ammalarsi). La verità è che il “metus” può indurre anche la riduzione di talune funzioni fisiche della qualità della vita ed una minore propensione alle relazioni sociali. Non va scordato che il timore della criminalità influenza in misura significativa non soltanto i comportamenti ma anche la salute mentale delle persone.