TERMOLI. Il campo petrolifero “Rospo mare” si trova in Adriatico. E’ costituito da tre piattaforme (una a Vasto, le altre due al largo di Termoli). In produzione dal 1982, hanno permesso di estrarre, sino ad oggi, quasi 100 milioni di barili. Quante volte gli ambientalisti hanno “sparlato” di queste strutture? Di sicuro tante. Ma quanti di noi sarebbero in grado di parlarne con autentica cognizione? Di sicuro pochi. Stavolta la fortuna ha voluto che “Termolionline” sia riuscita a discutere dell’argomento con un addetto ai lavori che, per illustrarne i “segreti”, ha cominciato col precisare che le piattaforme possono operare anche in acque molto profonde, ospitando un numero consistente di addetti. Tirate su per attingere ai giacimenti, esse sono dotate di una sorta di scalpello in grado di forare la roccia grazie ai suoi denti diamantati. Questo congegno si trova all’estremità della punta di un’asta tràmite cui si iniettano fanghi per lubrificare e per raffreddare. Questi ultimi risalgono da un’intercapèdine corrente tra l’asta ed il pozzo e, in questo modo, vengono recuperati. I giacimenti si formano grazie ai resti di animali marini che si depositano in fondo al mare, originando un processo che dura milioni di anni. La sabbia ed il terriccio si accumulano lentamente sui depositi, mantenendo questi ultimi isolati in un ambiente che rimane privo di aria e di luce. Dopo di che i batteri tramutano quei resti in gas che si diffonde tra strati di rocce porose, fino a restarne imprigionato. Ciò premesso, vediamo in cosa consiste l’attività di una piattaforma. Innanzitutto questa struttura anticipa una fase di doverosa esplorazione. Preliminarmente emette onde sismiche (con aria ad alta pressione) che colpiscono il fondo del mare e ritornano in superficie dove sono captate da uno strumento (l’idrofono) che le analizza in modo da acquisire indicazioni sulle rocce e sul loro possibile contenuto di idrocarburi. Per scavare i pozzi si realizza un sistema di perforazione. Ve n’è di tipo fisso (con le gambe d’acciaio impiantate nel fondale marino) e di tipo mobile. A quest’ultima famiglia appartengono i “backup” che, dopo avere ritratto le gambe, vengono trainati da rimorchiatori in un nuovo punto da perforare; poi vi sono i “semisub” (semisommergibili), appoggiati su scafi che galleggiano o vengono ancorati, a seconda delle necessità. Con la torre di perforazione si realizza il numero di pozzi previsti. Dopo che la punta ha scavato la roccia, si infila un tubo d’acciaio che riveste il foro e si va avanti sinché non si raggiunga la sacca di gas o di petrolio. A questo punto il pozzo viene collegato ad un tubo ed il gas inviato ad una raffineria di terra oppure ad una petroliera. Esaurito il giacimento (di solito dopo alcuni anni), la piattaforma può essere smantellata e – come accade sempre più spesso – riconvertita in un utile Centro di ricerche oceanografiche, in una stazione mèteo od in altro. In pratica, la torre di perforazione che equipaggia una piattaforma è un grande trapano che si sposta sul punto in cui deve essere realizzato il pozzo. Quest’ultimo può assumere varie forme (per esempio non deve essere necessariamente verticale) e può raggiungere anche oltre 5 km di profondità. Una condotta invia il gas dal pozzo alla raffineria. Può fare questo perché è spinto dalla sua stessa pressione o perché fruisce dell’ausilio di una pompa. Le gambe della piattaforma sono in acciaio e sono cementate sul fondale marino. In genere sono lunghe circa 100 m, ma talvolta arrivano pure sino ai 500. Non mancano a bordo le strutture di sicurezza e le comodità. Per esempio, così come nelle navi, vi vengono allocate le scialuppe di salvataggio, utili ad evacuare chi dimori in piattaforma nei casi di emergenza; poi può esserci un eliporto, che consente l’atterraggio ed il decollo degli elicotteri dedicati al trasporto del personale. Non mancano gli alloggi che ospitano la popolazione che può ricomprendere persino 200 persone. Claudio de Luca