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lunedì 27 Ottobre 2025
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Il peso delle parole che comprime il rispetto

TERMOLI. Ci sono notizie che chiedono una cosa semplice e urgente: rispetto. Non clamore. Non spiegazioni istantanee. Quando una vita si interrompe in modo tragico, il primo gesto umano non è costruire teorie, ma fermarsi — ascoltare, ricordare che dietro ogni titolo c’è un volto, una famiglia, una rete di persone che soffrono.

Eppure assistiamo sempre più a una corsa al giudizio. Sui social, nei commenti, nei post: si afferma, si etichetta, si smonta e si rimonta un’intera esistenza a partire da poche parole. C’è chi si erge a “sapiente” — con tono accademico o certi frasari da sentenzioso — e chi si ritira nel recinto del complotto. Ma il gesto è lo stesso: la presunzione di sapere, il «so tutto io». Sapienti o complottisti, cambiano le etichette ma resta immutata l’arroganza della certezza istantanea.

Questa presunzione fa male. Perché riduce il lutto a una battaglia di idee, trasforma il dolore in materiale d’uso per la propria identità digitale, e cancella la fragilità che ogni persona porta. Invece di coltivare la comprensione, alimentiamo polarizzazione. Invece di offrire presenza, cerchiamo conferme per le nostre certezze.

Imparare a rispettare non è un atto neutro: è un gesto civile e politico. Significa non fermarsi al titolo, non commentare per farsi vedere, non strumentalizzare una tragedia per legittimare teorie già pronte. Significa ascoltare senza l’urgenza di avere ragione; significa porre domande senza trasformarle in armi; significa chiedere, quando possibile, come aiutare — non come avere l’ultima parola.

Se vogliamo davvero onorare chi è stato colpito dal dolore, la prima forma di rispetto è il silenzio che ascolta, la parola che cerca di comprendere e la compassione che non pretende. Non è debolezza: è responsabilità. E finché continueremo a scambiarla per ingenuità, perderemo ogni possibilità di curare le ferite — nostre e altrui.

In un’epoca in cui tutti possono parlare, proviamo almeno a non essere i primi a giudicare. Mettiamo da parte il «so tutto io» e torniamo a praticare l’empatia: una scelta semplice che, in certi momenti, vale più di tutte le risposte.

Alberta Zulli