Sceglie di trasferirsi altrove, lettera di una maestra molisana ai colleghi
TERMOLI. Lettera di una maestra molisana ai colleghi, dopo la scelta di trasferirsi al Nord.
«Caro collega, ti immagino seduto ai banchi che mi hanno ospitata per tanto tempo, fino allo scorso anno, prima durante le lezioni di scienze della formazione, poi quelle del Tfa. Forse hai già lavorato a scuola, oppure attendi di terminare questo percorso per poter iniziare. In entrambi i casi spero ti faccia piacere leggere le parole che oggi decido di dedicarti, per rivelarti paure, delusioni, gioie e speranze che ho vissuto durante il mio (seppur ancora breve) percorso.
Scienze della formazione mi ha insegnato metodologie didattiche attive e innovative e fatto conoscere le leggi secondo le quali si muove il mondo della scuola; mi ha istruita secondo il pensiero di Don Milani, che rifugge dall'idea di scuola come ospedale che cura i sani e respinge i malati; mi ha fatto innamorare della nuova idea di valutazione, che evidenzia il procedere del percorso soggettivo di ognuno ed è utile da una parte all'insegnante, per comprendere come strutturare la progettazione, dall’altra all'alunno, per sentirsi parte attiva del proprio viaggio nell’apprendimento e comprenderne le tappe. Il percorso universitario ha dato spessore al concetto di centralità della persona, di cui si parla nelle Indicazioni Nazionali del 2012, che rappresenta sia il punto di partenza che quello di arrivo del nostro operare.
Durante le lezioni cresceva in me una grande sintonia con questo nuovo modo di vedere la scuola. La nuova forma che aveva preso sembrava essere ottimale per la persona e mi provocava una gioia immensa l’idea che avrei potuto riscattare la storia dei miei compagni delle scuole elementari, quelli che venivano giudicati pigri o stupidi e che tanto hanno sofferto dei giudizi subiti che hanno condizionato l’evolversi delle loro vite.
Quando qualche anno fa ho messo finalmente piede nella scuola che mi era stata prospettata, sono arrivata equipaggiata, dalla cima dei capelli fino alla punta dei piedi, di ottime intenzioni: volenterosa di guidare ogni bambino a scoprire il proprio talento, decisa a dare il massimo, a preparare le migliori esperienze laboratoriali, pronta a passare le notti davanti al computer per creare video lezioni stimolanti, mappe e schemi, a continuare a studiare, formarmi, approfondire…Quando sono arrivata nella scuola però, quella vera, mi è crollato il mondo addosso. Cercavo il riscatto per i miei ex compagni di classe, ma la scuola con cui mi sono scontrata sembrava addirittura peggiore di quella che ricordavo di aver vissuto da piccola. All’inizio ho cercato di darmi tempo, ho attribuito queste sensazioni alla mia impazienza, ma andando avanti ho capito che era proprio così che funzionava la macchina. Le maestre arrivavano a scuola senza la più pallida idea di come avrebbero strutturato la lezione del giorno. Sedevano dietro la propria cattedra, aprivano il libro e chiedevano ai bambini di andare a pagina 37. Ognuno di loro ne avrebbe letto un pezzetto e intanto l’ora sarebbe passata e l’ora di pranzo arrivata. Che si trattasse di italiano, storia, scienze o geografia poco importava. Sul libro c’è sempre scritto qualcosa ed è sufficiente questo.
Il dramma si sarebbe consumato a casa. Lì si sarebbero dovuti svolgere i compiti, che richiedevano conoscenze “apprese” durante la lettura a scuola, senza alcun supporto da parte dell’insegnante, la quale, il giorno dopo, avrebbe verificato la correttezza dei compiti e avrebbe anche verbalmente offeso chi non fosse stato in grado di svolgerli in maniera esatta (o, per raccontare la situazione in maniera più realistica, chi non fosse stato tanto fortunato da avere un adulto a disposizione al quale chiedere spiegazioni).
Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, non tutte hanno svolto il proprio lavoro delegando ad un libro l’onore di insegnare; qualche perla rara, che tentava di rendere gli alunni parte attiva, l’ho trovata, ma erano poche, troppo poche. Nella scuola c’è bisogno del lavoro di progettazione in team, i bambini hanno bisogno di continuità, di regole precise e soprattutto di modelli che non chiedano l’impossibile, ma che mostrino loro come fare.
Ti starai chiedendo che parte abbia avuto io in tutto questo. Io ero l’insegnante incaricata sul sostegno che, come ti avranno già raccontato al Tfa, o come avrai avuto modo di scoprire da sol*, nella pratica (totalmente errata e anacronistica) significa spesso “l’assistente dell’alunno con disabilità”, “quella che lo deve portare fuori, perché in classe dà fastidio”, ecc.
Ho provato a destreggiarmi in questo mondo al meglio che ho potuto. Ho cercato di dare qualcosa ad ognuno, ma mi sono scontrata con una sensazione di impotenza davvero forte, che innumerevoli volte mi ha fatto tornare a casa in lacrime. Ho visto tanti bambini terrorizzati dalla scuola, sofferenti, pieni di ansia. Avrei voluto dirgli che la colpa non era loro, ma di una scuola che gli stava chiedendo l’impossibile. Avrei voluto dirgli che gli appellativi che gli erano stati assegnati non li rispecchiavano. In un certo senso l’ho fatto, dicendo loro solo metà delle verità che avevo in mente. Come potevo screditare in tal modo tutto il sistema scuola all’interno del quale erano immersi? Temevo di creare in loro una frattura ancora più grande, che non avrei saputo, né potuto, gestire da sola.
Durante l’ultimo anno di lavoro in Molise ho frequentato il Tfa e ho percepito ancora più intensamente la fatica di far combaciare la scuola ideale con la scuola reale. Non nego che io abbia iniziato a pensare che tutto quello che mi veniva raccontato a lezione fosse solo utopia. Una parte di me voleva credere che quella scuola potesse esistere, perché sapevo che abbiamo gli strumenti per realizzarla, ma l’altra parte di me si scontrava con la consapevolezza che mancano le persone che vogliono farlo.
Poi è arrivato un nuovo anno, iniziato da soli tre mesi. Ho deciso di trasferirmi in una scuola del nord Italia, alla ricerca di nuove possibilità. Se oggi sono qui a scriverti, è perché sono stata tanto fortunata da trovarle e desidero mostrarti un pezzetto di questa realtà.
Ora lavoro in una scuola dove si respira amore per questo mestiere in ogni singola particella d’aria. Le maestre sono competenti nella didattica, mettono in campo ogni sorta di strategia innovativa e io ho l’onore di essere una di queste.
Sono ancora assunta con incarico sul sostegno, ma l’idea che c’è alla base è molto diversa da quella che si trova nelle altre scuole che ho conosciuto: ad ogni insegnante è affidata una disciplina, anche a quelle assunte con incarico sul sostegno, in modo che sia le insegnanti, sia gli alunni, possano percepire ogni docente come docente della classe. Durante le ore di lezione in aula siamo sempre almeno due maestre, spesso tre, contemporaneamente. Questo offre davvero tante possibilità per svolgere lezioni dinamiche e allo stesso tempo per offrire supporto a chiunque abbia necessità. Come è possibile? Con le ore di compresenza, che fino a tre mesi fa avevo visto sempre utilizzate come pausa caffè dalle mie colleghe.
Ciò che mi ha colpito di più, quando ho conosciuto i miei nuovi alunni per la prima volta, è che mi è stato impossibile individuare gli alunni con disabilità. In genere li noti subito: hanno l’insegnante che li scorta, anche se non hanno disabilità motorie che lo richiedono, vengono spesso isolati dagli altri bambini e, quando si propongono delle attività didattiche, vengono esonerati, gli viene presentato qualcosa di diverso, oppure vengono fatti uscire per lavorare in rapporto 1:1 con “la loro maestra”. Tutto questo non è avvenuto, perché in questa scuola vengono davvero valorizzate le differenze di ciascuno. No, non è solo un bel modo di dire, una di quelle frasi che ti fanno apparire inclusivo e che ti fanno fare bella figura agli esami. Ė possibile!
Le proposte didattiche sono varie nella forma e nei contenuti. Non c’è lo stigma per il compagno che ha il compito diverso dagli altri, perché ci sono tante proposte differenti, al punto che risulta impossibile determinare una “norma”. Ognuno di loro predilige uno stile di apprendimento, un argomento, o semplicemente un modo di relazionarsi in gruppo, e può quindi essere di supporto ai compagni in qualche occasione. Il meticoloso lavoro che noi insegnanti svolgiamo giorno per giorno è proprio quello di creare tali occasioni, applicandoci per proporre un ampio ventaglio di proposte. Lo facciamo durante le ore di programmazione, che spesso da due diventano quattro, o durante i pomeriggi “liberi”, che passiamo a progettare, con amore, per creare una didattica personalizzata ad ogni esigenza.
In una classe di 20 bambini non sono presenti il bambino con disabilità più altri 19 bambini, bensì 20 bambini diversi, e ognuno di essi ha delle esigenze particolari che meritano tutte di essere curate. Questo è uno degli insegnamenti più preziosi che ho ricevuto dal Tfa. Sembra banale, ma non lo è. Anche se lo sappiamo, quando entriamo in una classe siamo portati a cercarlo, a classificare, abbiamo bisogno delle etichette. Forse questo ci fa sentire più sicuri, ma la realtà non è questa. Le persone non vanno in giro con scritto “io sono bravo in matematica”, “io ho una brutta calligrafia”, “io ho l’autismo”...Le etichette riducono la complessità, ma le persone sono complesse ed è necessario lavorare proprio su questo per aiutare a far venir fuori il meglio da ognuno.
La scuola in cui mi trovo oggi, anche se dal punto di vista della mole di lavoro risulta molto faticosa, mi rende pienamente soddisfatta e non la scambierei mai con una dove lavoro molte meno ore alla settimana, ma mi sento inutile e impotente. Non ho mai visto prima dei bambini così felici di andare a scuola. Qui hanno il tempo per giocare, per conoscersi, e imparano divertendosi…quasi senza rendersene conto! Mi viene in mente Rodari, che ci provoca con la domanda: “Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo?”.
In questa scuola non abbiamo fretta di terminare un fantomatico “programma” (ormai abolito da anni). Preferiamo lavorare sul raggiungimento dell’autonomia (di pensiero, motoria, relazionale, ecc.) piuttosto che sull’accumulare contenuti su contenuti, che verranno presto dimenticati.
L’esperienza scolastica, seppur breve, che ho vissuto fino ad oggi, mi porta a credere che noi adulti tendiamo a trattare i bambini come se non avessero la complessità emotiva di un adulto. Immaginiamo che la loro vita sia costellata di gioia e non riusciamo a supporre che possano avere un problema, anche perché spesso riteniamo stupidi i motivi per cui si lamentano. Addirittura credo che il nostro essere fisicamente più grandi e l’avere una maggiore esperienza del mondo, ci faccia sentire legittimati a prenderli in giro, a sminuire e a non considerare le loro richieste.
Ho scelto di scrivere questa testimonianza per un motivo. A volte fai qualcosa di cattivo, a volte dici qualcosa di stupido, può capitarti di non ricordare il risultato di 7x8 o il procedimento per svolgere le divisioni a due cifre. Un giorno sei triste, o stai male, e non hai voglia di vedere nessuno, ma al lavoro devi andare lo stesso.
Per questo vorrei chiederti di guardare ai bambini come vorresti essere guardato tu. Immaginati al loro posto quando commetti un errore. Vorresti essere rimproverato in quel modo da chi è lì per insegnarti come fare? Vorresti essere giudicato o schernito davanti ai tuoi amici?
Penso che quello dell’insegnante sia il mestiere più bello e delicato al mondo. Abbiamo la possibilità di annaffiare e aiutare a sbocciare i piccoli semi che ci vengono affidati, ma anche il potere di distruggere sul nascere quelle piccole piantine che avrebbero bisogno del nostro sostegno, se le schiacciamo con le cattiverie che sfuggono così facilmente dalle nostre bocche.
Un giorno, a lezione, il professor Gili disse una frase che ho fatto mia e mi guida in ogni scelta: “Non ci è possibile cambiare il mondo, ma ognuno è responsabile del suo piccolo pezzetto di mondo”. Ti auguro di affrontare ogni giorno questo mestiere, ovunque tu insegnerai, con immenso amore, nella prospettiva di cambiare in meglio il tuo piccolo pezzetto di mondo».