"Il peso delle parole": la lunga ombra del bullismo
Da poco è arrivato nelle sale cinematografiche Il ragazzo dai pantaloni rosa, un film che affronta in modo diretto e intenso il tema del bullismo e delle sue devastanti conseguenze. Anche se non è ancora stato visto da tutti, il dibattito che ha suscitato è già un’importante occasione di riflessione. Il bullismo è un fenomeno che ci riguarda tutti, che avviene dentro e fuori le scuole, tra coetanei e in ogni contesto sociale. È una piaga che lascia cicatrici profonde, che si manifestano spesso anche ben oltre l'adolescenza.
La storia che si racconta nel film è una storia vera, una storia che parla di Andrea Spezzacatena. Storie di sofferenza, umiliazione e resistenza. Lui il ragazzo dai pantaloni rosa, vessato e umiliato che a un certo punto non ce l’ha fatta più e ha deciso che la terra non era più posto per lui.
Come Andrea ce ne sono tanti. Storie vere che conosci direttamente e indirettamente, e che le persone si portano dietro per tutta la vita. E proprio da una di queste storie vere voglio partire per riflettere sull’impatto devastante che il bullismo può avere nella vita di un individuo.
C’è una ragazza che ha vissuto la sua adolescenza come prigioniera, non tanto dentro le mura di casa, ma all’interno delle gabbie invisibili costruite dalla cattiveria altrui. Tutto è iniziato con piccoli episodi, che già da bambina portavano il peso della delusione. Promesse tradite, come un “ci vediamo più tardi per giocare” che si trasformava in un’attesa vana e amara, spiegata da una madre amorevole con un “gli imprevisti possono capitare”. Ma dietro quegli imprevisti si celava un rifiuto silenzioso, un primo assaggio di un’esclusione che si sarebbe fatta via via più pesante.
L’adolescenza, un’età già complicata di per sé, per lei è stata un periodo di isolamento e dolore. Una malattia cronica l’ha costretta a rallentare, a fare i conti con un corpo e una condizione che la allontanavano dal mondo spensierato dei suoi coetanei. E se da un lato le sue amiche storiche cercavano di spronarla, dall’altro la nuova comitiva che frequentava non ha fatto altro che accrescere il suo senso di inadeguatezza. Insulti come “Free Willy”, “balena”, “fai schifo” non erano solo parole: erano coltelli che ferivano la sua autostima e scavavano un solco sempre più profondo tra lei e gli altri.
L’episodio più crudele, quello che ha segnato una rottura definitiva, è arrivato mentre era ricoverata in ospedale per le cure necessarie alla sua malattia. Un messaggio freddo, disumano: “Speriamo marcisci in ospedale.” A peggiorare le cose, un passaggio in macchina che si trasformò in un atto di puro sadismo: un tentativo di buttarla fuori dall’auto a una curva. Gesti e parole che non si dimenticano, anche dopo decenni.
Oggi, con oltre 25 anni trascorsi da quei giorni bui, quella ragazza è una donna adulta che ha superato molte delle sue insicurezze, ma che non può cancellare il passato. Eppure, osservando dove sono arrivati i suoi bulli, si è fatta un’idea chiara: nonostante tutto, lei ha vinto. Ha trovato la forza di andare avanti, mentre loro, ora genitori, devono fare i conti con ciò che sono stati.
Il bullismo non è solo un problema di chi lo subisce: è una responsabilità collettiva. Come genitori, insegnanti, amici, dobbiamo agire per prevenire e combattere questa piaga. I bambini non nascono bulli, lo diventano quando non vengono educati al rispetto, alla gentilezza, e alla comprensione dell’altro. Chi oggi è genitore e legge queste parole dovrebbe porsi una domanda: sto insegnando a mio figlio a non ferire gli altri? Sto facendo in modo che sia capace di empatia, di riconoscere il valore delle differenze, di essere migliore di chi in passato ha sbagliato. La storia di questa ragazza è un monito per tutti noi. Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo costruire un futuro in cui nessuno debba più sentirsi escluso, insultato o maltrattato per ciò che è. Perché nessun ragazzo o ragazza dovrebbe mai dover vivere la propria adolescenza rinchiuso in casa, prigioniero della paura e della sofferenza. È nostro dovere fare in modo che queste storie non si ripetano.