TERMOLI. Nella giornata di ieri, un uomo ha raccontato pubblicamente la sua frustrazione e il suo dolore per non riuscire a trovare un lavoro. Una storia comune, eppure straordinaria nella sua capacità di toccare corde profonde.
Nel giro di qualche ora dalla pubblicazione del suo sfogo, ci sono stati contatti per delle offerte lavorative. La potenza della connessione tra persone, innescata da un articolo, ha prodotto un risultato concreto: un gesto di solidarietà. Ma, al di là del lieto fine, rimane una domanda aperta e inquietante: perché per essere ascoltati dobbiamo arrivare a scrivere un articolo? Anche nel passato recente di riflessioni simili, su casistiche variegate, ne abbiamo fatte, declinando l’utilità sociale dell’informazione, che colma vuoti istituzionali e di sistema.
Viviamo in un mondo in cui milioni di persone affrontano difficoltà simili. Tuttavia, solo chi ha la possibilità di raccontare la propria storia attraverso i media riesce a smuovere le coscienze e a trovare aiuto. Questo non è solo un problema sociale, ma un sintomo di un sistema che lascia troppe persone invisibili. Come è possibile che la dignità di una persona debba dipendere dalla visibilità che ottiene?
La vicenda di quest’uomo ha fatto emergere due aspetti fondamentali della nostra società: da un lato, il potere del racconto umano, capace di ispirare azioni e solidarietà; dall’altro, la necessità di interrogarsi su un sistema che spesso costringe le persone in difficoltà a gridare il proprio disagio per essere considerate.
Le storie hanno una forza dirompente. Ci connettono, ci fanno riflettere, ci spingono a mettere in discussione le nostre certezze. Quando leggiamo di qualcuno che lotta per sopravvivere, è più facile empatizzare, immaginarsi nei suoi panni. Questo è esattamente ciò che è accaduto ieri: una persona ha letto, ha capito, ha agito. Ma quante altre storie restano inascoltate? Quante persone vivono nella stessa condizione, senza una piattaforma che amplifichi la loro voce?
La domanda è amara. Un sistema che costringe una persona a rendere pubblica la propria sofferenza per ottenere un minimo aiuto è un sistema che non funziona. Non dovrebbe essere necessario attirare l’attenzione di una redazione o di un pubblico per ricevere il supporto di cui si ha bisogno. La solidarietà non dovrebbe dipendere da un’esposizione pubblica; dovrebbe essere un pilastro strutturale della nostra società, integrato nei suoi meccanismi, visibile e accessibile a chiunque.
Questa vicenda ha anche evidenziato un lato oscuro del nostro vivere digitale: i commenti negativi, il cinismo, la mancanza di empatia. Mentre c’è chi offre aiuto, c’è anche chi punta il dito, giudica, ridicolizza. Come possiamo, come società, crescere se ci neghiamo la capacità di essere gentili? Ogni parola scritta online ha un peso, e troppo spesso il peso è quello di un giudizio che schiaccia chi già si trova a terra.
Le redazioni hanno un ruolo cruciale. Dare spazio a queste storie è un atto di responsabilità sociale, ma non può essere una soluzione di emergenza. Dobbiamo aspirare a un futuro in cui nessuno debba gridare per essere ascoltato. Questo significa investire in politiche sociali più inclusive, costruire reti di supporto che vadano oltre la singola storia e promuovere una cultura dell’empatia.
La storia di quest’uomo è un esempio di come possiamo essere migliori, ma anche un monito: non dobbiamo accontentarci del lieto fine individuale. Dobbiamo lavorare per costruire una società in cui la dignità e l’ascolto siano garantiti a tutti, non solo a chi riesce a fare rumore.
Alla fine, la vera domanda è questa: cosa può fare, ognuno di noi, per ascoltare il grido di chi non ha voce, prima ancora che debba diventare uno sfogo amplificato mediaticamente?
Alberta Zulli